“(…) Quella frase [la religione è “oppio dei popoli”, ndr] è senza dubbio di Marx (nella ‘Introduzione alla critica della filosofia del diritto di Hegel’, del 1841-1843), è stata ripresa da Lenin e mille volte usata nella polemica corrente, (…) tuttavia essa definisce la religione per la ‘funzione’ che essa esercita o che i suoi ‘gestori’ le fanno normalmente esercitare, non però per la sua ‘essenza’ o natura. Se vogliamo capire quale sia l’essenza della religione per Marx, dobbiamo ricorrere ad altri testi che, dopo quello scritto giovanile su su fino al ‘Capitale’, illuminano, sia pure di scorcio, questo argomento. Qui accennerò soltanto a due di essi: i ‘Manoscritti’ del 1844 e il ‘Capitale’ di oltre vent’anni dopo. Nell’uno e nell’altro Marx parla della religione in analogia all’economia, cioè (…) all’attività vitale dell’uomo, o produzione della vita materiale, che è condizione della vita sociale, politica, intellettuale; e, usando concetti di derivazione hegeliano-feuerbachiana che egli però rovescia e storicizza applicandoli alla situazione del lavoro umano in una società divisa in classi, la definisce come ‘alienazione’ o estraniazione dell’uomo in un suo prodotto ideale, come ‘feticismo’, ecc. Nel primo testo per chiarire l’alienazione dell’operaio nel prodotto del suo lavoro (“l’operaio mette nell’oggetto la sua vita, e questa non appartiene più a lui, bensì all’oggetto”), egli commenta: “Come nella religione. Più l’uomo mette in Dio, meno serba in se stesso” (p. 226). E altrove: come la proprietà privata non è causa, ma conseguenza del lavoro alienato, così “gli Dei sono ‘in origine’ non causa, bensì effetto dello smarrimento dell’intelletto umano” (la sottolineatura è di Marx); e aggiunge subito dopo un breve accenno che riguarda anche la ‘funzione’ della religione: “‘poi’ questo rapporto si rovescia in effetto reciproco” (qui la sottolineatura è mia), cioè, la religione ‘diventa’ da effetto anche causa di quello smarrimento. Insomma, Marx distingue chiaramente prima la natura poi la funzione della religione: e la sua natura consiste nell’essere un aspetto dell’alienazione dell’uomo, e non nell’essere oppio o strumento di regno. Lo stesso tipo di considerazione è svolto nel ‘Capitale’ a proposito del “carattere di feticcio” delle merci, cioè del fatto che i sensibili prodotti del lavoro umano (valori d’uso) si trasformano in merci (valori di scambio), “cose sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali”. Per chiarire come mai i rapporti tra merci (abiti, stivali, argento, oro, ecc.) appaiano agli uomini come rapporti oggettivi fra cose, dovuti a una mistica loro virtù interiore, anziché come rapporti sociali determinati fra gli uomini stessi, cioè espressioni materiali del lavoro sociale complessivo speso nella loro produzione, egli commenta: “Per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così nel mondo delle merci fanno i prodotti della mano umana. Questo io lo chiamo il feticismo…” (I. 1. p. 86). Che a un quarto di secolo di distanza Marx torni sulle stesse analogie tra struttura e sovrastruttura, tra economia e religione, mi sembra confermi la validità per lui di quella caratterizzazione della religione. (…)” [Mario Alighiero Manacorda, I marxisti e la religione. A proposito di “oppio dei popoli”. (Rinascita, N° 16, 18 aprile 1964, pag 31)]