“Anzitutto, secondo il Sofri, «non esiste ‘il’ Marx che alcuni vorrebbero (o che tutti, ciascuno a suo modo, vorrebbero) mentre esistono ‘diversi’ Marx, corrispondenti non solo e non tanto a epoche diverse (il Marx giovane, quello della ‘Formen’, quello del ‘Capitale’, quello della vecchiaia), quanto a ispirazioni di fondo quasi sempre ‘compresenti’, in forma contraddittoria, nell’opera marxiana» (4). Ora, a parte questo compiaciuto auto-porsi del Sofri al di sopra della mischia, nel senso che egli è convinto di essere dotato di una consapevolezza relativistica che agli altri manca, confesso che, di primo acchito, mi riesce difficile trovare una corrispondenza tra l’opera effettiva di Marx e questo Marx sofriano, percorso da intime, compresenti contraddizioni. Ma per fortuna il Sofri fornisce un ulteriore chiarimento in proposito. «C’è un Marx – ancora secondo Sofri – che tende a stabilire le leggi generali dello sviluppo storico e c’è un Marx che si occupa essenzialmente della società capitalistica e del suo superamento rivoluzionario, che solo incidentalmente s’imbatte in altri tipi di società (l’«altro dal capitale») e affida allora le proprie osservazioni su di esse, ‘per lo più’, a quaderni di appunti, non destinati alla stampa». E «personalmente» il Sofri, anche se non si sente «di espungere il primo Marx» dichiara tuttavia che le sue propensioni vanno verso il secondo Marx, che gli pare si possa anche ritenere che «sia non solo il più produttivo per noi, ma anche il più ‘vero’» (5)” (pag 16-17); “Nelle ‘Forme’ Marx colloca il mondo greco-romano a un livello comunitario-primitivo che non trova riscontro nel ‘Capitale’. E pur tuttavia il fatto che Marx istituisca un rapporto stretto – non solo per la comunità antica ma anche per le altre – tra la forma della proprietà e le condizioni della produzione, la formulazione secondo cui la storia dell’antichità classica è storia di «città basate sulla proprietà fondiaria e sull’agricoltura», la concezione secondo cui la «terra costituisce la base della comunità», il modo come Marx vede la dissoluzione della comunità (con la schiavitù e la servitù della gleba che «falsificano e modificano le forme originarie di tutte le comunità e ne divengono persino la base») tutto questo dimostra che anche nelle ‘Forme’ la distinzione tra struttura e sovrastruttura gioca un ruolo essenziale. Certo, qui il quadro è più complesso, perché entra in gioco un presupposto che è la comunità naturale della tribù, nel senso dell’affinità di sangue, di lingua, di costume; e uno degli aspetti più affascinanti delle ‘Forme’ è proprio una tormentata tensione tra il dato dell’affinità della ‘stirpe’ e il particolare modo come la comunità si configura in relazione alle condizioni della produzione. Naturalmente, se il discorso di Marx sia assolutamente coerente, e, anche, se esso sia credibile alla luce di una verifica della realtà storica effettivamente accertabile (per quel che riguarda il mondo greco-romano esso è a mio parere condizionato da una documentazione troppo scarsa e selettiva) (7) tutto questo è un problema che può restare aperto. Ma non ci sono dubbi, mi pare, che il discorso che Marx conduce nelle ‘Forme’ non può essere dissociato, con una operazione piattamente semplificante, dal ‘principio’ del nesso struttura – sovrastrutture: sempre che, ben inteso, non si voglia pretendere un’applicazione meccanicamente semplicistica di questo ‘principio’ e non ci si ritragga, impauriti, di fronte a una articolazione più complessa, e più difficile, del discorso marxiano” (pag 18) [(4) Cfr. marxismo mondo antico e Terzo mondo [in seguito ‘Inchiesta’], Napoli, 1979, p. 181; ((5) Cfr. Inchiesta, p. 182; (7) Rimando per questo ai capitoli II e III] [‘Filologia e Marxismo. Contro le mistificazioni’, di Vincenzo Di Benedetto e Alessandro Lami, Liguori editore, 1981]
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- Articolo pubblicato:2 Marzo 2022