“Sulla questione della caduta tendenziale dei profitti non mi soffermo; dico solo che si sono osservate variazioni in aumento e in diminuzione dei profitti, ma che non si può parlare di una caduta tendenziale. È invece corretta la tesi della crescente concentrazione delle imprese, che Marx attribuisce in primo luogo a quelle che poi sono state chiamate le economie di scala – le economie ricavabili dalle produzioni attuate con grandi dimensioni; bisogna dire però che un tale processo ha portato alla formazione di grandi imprese, di grandi complessi, anche di complessi transnazionali o multinazionali, come si suol dire. Contemporaneamente, però, e soprattutto negli ultimi due decenni, si sono creati nuovi spazi economici per le imprese medie e piccole, imprese moderne e dinamiche, non necessariamente imprese satellite delle grandi. Di conseguenza, non bisogna vedere solo il processo di concentrazione; se mai, si deve vedere un processo duplice, di rami che si sono concentrati e di rami che, al contrario, si sono sviluppati grazie a imprese di piccole dimensioni. Marx intravede soprattutto il primo processo; e se si tiene conto che ai suoi tempi le società per azioni di tipo moderno erano appena in formazione, se si tiene conto che la scena economica era dominata da piccole imprese, dobbiamo concludere che questa sua previsione, pur se parziale, è corretta ed è degna di nota. La seconda previsione corretta ed importante riguarda il ciclo economico. Fino allora gli economisti non avevano visto l’andamento ciclico dell’economia, avevano visto le crisi come fenomeni essenzialmente accidentali; Marx invece considera il ciclo come un movimento sistematico e abbastanza regolare, egli parla di un ciclo decennale dell’industria moderna e vede il ciclo come il movimento emergente dallo sviluppo capitalistico, proprio come lo vede molto tempo dopo Schumpeter, che nasceva proprio nell’anno in cui Marx moriva. Schumpeter, che per molti aspetti può essere definito come un marxista conservatore, vedeva il movimento ciclico connaturato allo sviluppo dell’economia capitalistica. E difatti; se esaminiamo le serie storiche della produzione, dei salari e dei prezzi, vediamo che questo ciclo, fino alla prima guerra mondiale, ha una regolarità stupefacente; non è proprio di dieci anni, si può dire più propriamente che va dai sette ai nove anni, più spesso sui sette che sui nove; ma questa quasi regolarità è impressionante, se si tiene conto che l’economia non è qualcosa che sta per conto suo, ma è tutta la società che si muove; e questa società, sottoposta agli impulsi e alle sollecitazioni più diverse, fino alla prima guerra mondiale, genera un ciclo quasi regolare. Le cose cambiano dalla prima alla seconda guerra mondiale, come ha ricordato il prof. Ceccherella. La ‘Teoria generale’ di Keynes nasce durante la grande depressione che comincia nel 1929 e viene superata soltanto con la seconda guerra mondiale, anche se una parziale e insoddisfacente ripresa ha luogo dal 1934 al 1936; nonostante tale ripresa, nel ’39 la massa dei disoccupati era ancora enorme. Dal 1929 al 1939 il ciclo tradizionale non si vede più, i sismografi impazziscono. Dopo la seconda guerra mondiale nei paesi sviluppati il ciclo si ripresenta ma, fino a dieci anni fa, ha caratteristiche molto particolari, perché le flessioni non sono assolute ma relative, ossia sono osservabili solo sui saggi di aumento, che sono quasi sempre positivi, o scendono a zero, ma non vanno sottozero (ciò avviene solo una volta e solo in certi paesi). Da dieci anni le cose sono di nuovo cambiate, e l’andamento non è chiaro; o meglio, ciascuno di noi tre economisti ha le sue ide su quello che sta succedendo, ma le idee non sono ancora concordi. L’aver visto questo movimento ciclico è un merito di Marx che rimane” (pag 77-78) [dal testo della relazione al convegno su Marx e Keynes organizzato dalla Biblioteca del Duomo di Pontedera il 12 novembre 1983] [Paolo Sylos Labini, ‘Riflessioni su Marx e Keynes’, Il Ponte, Firenze, n. 6, novembre-dicembre 1984]