“Dietro a [Walther] Rathenau possiamo scorgere facilmente la particolare vicenda del capitalismo tedesco (15), specie nella sua fase del capitalismo di guerra (16). In Germania la nascita e l’affermazione del sistema capitalistico, sin dai suoi inizi, ebbe, di caratteristico il fatto che l’autoritarismo prussiano svolse una funzione di primo piano nella formazione e nello sviluppo dell’industria moderna tedesca (17). Ciò che in altri paesi si sviluppava per opera di una borghesia liberale che allo stato attribuiva unicamente la funzione ‘of granting contracts’, in Germania avveniva anche direttamente all’insegna della stretta alleanza fra grande industria e pubblici poteri (18) culminante nella politica degli armamenti (19). Di questa specificità della storia del capitalismo in Germania è un esempio indicativo che solo nel 1923 si giunge a una, peraltro assai debole, legislazione anticartellistica (20), mentre per tutto il periodo precedente i processi di concentrazione erano stati espressamente favoriti dai pubblici poteri (21); tendenza che si era ulteriormente rafforzata nel corso del primo conflitto mondiale durante il quale il processo di concentrazione e razionalizzazione dell’economia aveva costituito il presupposto e lo strumento dello sforzo bellico (22). Si comprende allora come le opinioni di Rathenau (23), che vengono, particolare di non secondaria importanza, espresse negli anni attorno al primo conflitto mondiale, insistano sull’impresa come «colonna dello Stato», portatrice di interessi obiettivi, svincolata dalle remore «utilitaristiche» degli azionisti. Si comprende come Rathenau affermi che la stessa forma azionaria non è più rispondente al profondo mutamento verificatosi. Gli interessi pecuniari dei piccoli azionisti diventano un ostacolo al raggiungimento di scopi che ormai trascendono il «lucro» per coincidere invece con quello generale del paese (24)” (pag 17-19) [(15) Sul che si veda Böhme, ‘L’ascesa della Germania a grande potenza’, Milano-Napoli, 1970. Sullo stesso argomento restano ancora di grande interesse le osservazioni di Veblen, ‘La Germania imperiale e la rivoluzione industriale’, a cura di F. De Domenico, Torino, 1969; (16) Cfr. ‘L’economia nuova’, cit., p. 93: «la nostra economia di guerra, sebbene in singoli luoghi possa essere fallita ed anzi essersi demolita, offre appunto la dimostrazione, se la si osserva rettamente, che i sistemi apparentemente più immutabili possono essere trasformati non in una sola, ma in molte maniere e che lo Stato, in quanto esso sia opportunamente diretto, può coi suoi organi e le sue istituzioni adattarsi e muoversi efficacemente in ogni campo del lavoro»; (17) Il fenomeno si accentuò, dopo una parentesi liberista (c.d. periodo Delbrück), a seguito della crisi del 1873 (cfr. Böhme, ‘L’ascesa della Germania’, cit., pp. 352 ss.) che portò alla organizzazione, prima, alla fondazione della Federazione dell’industria pesante (1874), poi della Confederazione generale dell’industria tedesca (1875) e quindi ad una generale riconversione della politica economica in senso protezionista e di stretta alleanza fra grande industria e apparato statale; (18) La specificità della politica economica perseguita dai governanti prussiani «è ancora di tipo cameralistico» scriveva Veblen, ‘La Germania imperiale’, cit., p. 490: questo autore poco dopo aggiungeva: «In perfetto accordo con le tradizioni cameraliste e con la linea politica perseguita con un così ragguardevole successo dalla lunga successione degli statisti prussiani, il governo degli Hohenzollern nella Germania imperiale ha posto correntemente le esigenze dello stato, o della dinastia, a supremo oggetto della su cura… si trattava però di una saggezza dinastica e quindi di una politica sostanzialmente mercantilistica, o perfino cameralistica». Si veda in proposito anche quanto afferma Pietranera nella ‘Introduzione’ a Hilferding, ‘Il capitale finanziario’, Milano, 1961, p. XXXVI, sul periodo antecedente il 1870: «In Germania, nell’ambito della politica mercantilistica, lo Stato aveva una funzione attiva nel promuovere la fondazione della società per azioni. Molto più tardi, prevalse ancora, nel campo del diritto societario, il principio che la fondazione di una società azionaria derivasse sempre da una «concessione» statale e tale concezione perdurò sino al 1870… Il che costituisce un’anticipazione formale del rapporto fra Stato e Capitalismo finanziario che ha forse richiamato l’attenzione di Hilferding». E’ chiaro che nella storia tedesca la specificità non è tanto rappresentata, quanto alle modalità di fondazione delle società per azioni, dal particolare intervento statale nell’epoca mercantilistica: la vicenda delle grandi ‘companies’ inglesi ed olandesi del secolo XVII ci dà in questo senso esempi ben più rilevanti; essa discende piuttosto dal perdurare di tali modalità anche in un periodo dove negli altri paesi, la costituzione delle società per azioni si era ormai svincolata da ogni remora pubblicistica; (19) Cfr., sul punto, Fischer, ‘Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918’, a cura di E. Collotti, Torino, 1965, p. 11 ss., dove si trova un ampio panorama sul ruolo svolto da stato e grande industria nella formulazione della politica imperialistica tedesca; (20) Cfr. Liefmann, ‘Die Unternehmungen und ihre Zusammenschlüsse’, II. Kartelle, Konzerne und Trusts’, Stuttgart, 1930, pp. 203 ss; (21) Vedi quanto dice Fischer, ‘Assalto al potere modiale’, cit., p. 17, sulla definitiva affermazione dei cartelli e delle grandi società per azioni in corrispondenza dell’introduzione del protezionismo doganale nel 1879. Sulla funzione dei cartelli nella pianificazione dello sforzo bellico tedesco cfr Liefmann, ‘Die Unternehmungen’, cit., pp. 117 ss.; (22) Si noti che Rathenau, personalmente, giocò un ruolo non irrilevante sia nella formulazione degli obiettivi della politica imperiale tedesca (la formazione di una «Mitteleuropa» sotto l’egemonia germanica e l’espansione coloniale per la formazione di un’Africa centrale tedesca), sia come organizzatore dello sforzo bellico (dal 1914 gli venne affidata la direzione della Divisione per le materie prime belliche presso il Ministero della Guerra). Cfr. Fischer, ‘Assalto al potere mondiale’, cit., pp. 28, 111, 128, 185 s., 299; (23) Queste vennero esposte principalmente nell’opera ‘Vom Aktienwesen-Eine geschäftliche Betrachtung’, in Gesammelte Schriften, Berlin, s.d. (ma 1925), vol. V, della quale si cita la trad. it. a cura di L.M. e A.M. in «Riv. soc.», 1960, pp. 918 sa. Ciò che Rathenau prospetta come un modello era stato già in precedenza oggetto di quella che resta una indagine fondamentale sul ruolo della grande società per azioni nel quadro dell’economia capitalistica. Mi riferisco ad Hilferding, ‘Il capitale finanziario’, cit., pp. 121 ss. Tutti i temi della polverizzazione della proprietà azionaria, della trasformazione della posizione del socio in quella di semplice titolare di un diritto di credito sono trattati nell’opera di questo scrittore, il quale anticipa la problematica propria della grande impresa nei motivi che verranno poi via via toccati dalla letteratura successiva. Già del resto Marx, ‘Il capitale’, 1965, vol. I, p. 687, e vol. III, pp. 517 ss, aveva individuato nella società per azioni lo strumento principale della concentrazione dei capitali. Come è noto per Marx (vedi Pietranera, ‘Introduzione’, cit., p. XLI) la società per azioni fa parte del sistema creditizio nel suo complesso che include oltre che le banche vere e proprie anche ogni altra istituzione finanziaria; Marx (così Pietranera, ‘Introduzione’, cit., p. XLIII) «rileva che, con la formazione della società per azioni, si ha la trasformazione del capitalista realmente operante, in semplice dirigente, amministratore dei capitali altrui». Anche se in queste sede non si possono richiamare le differenze fra la impostazione di Marx e quella di Hilferding, (sul che vedi sempre Pietranera, ‘Introduzione’ cit., p. XLIII), va comunque sottolineato che il secondo degli autori citati insiste particolarmente (‘Il capitale finanziario’, cit., pp. 142 ss.) sulla funzione della banca mista nella formazione delle grandi concentrazioni industriali e sulla crescita di un apparato di burocrati non proprietari in posizione di dominio sulla società: tema questo che rappresenterà il filo conduttore, anche se in chiave radicalmente diversa, di tutto il pensiero c.d. managerialista] (pag 18-19) [Francesco Cavazzuti, ‘Capitale monopolistico, impresa e istituzioni. Le teorie giuridiche e ideologie’, Il Mulino, Bologna, 1974]