“[M]olti autori hanno richiamato l’attenzione sulla funzione integratrice che l’espansione imperiale può avere nella creazione di una solidarietà. In questo senso la nozione marxiana di «aristocrazia operaia» così come viene discussa da Engels, Lenin e Gramsci e la teoria nazionalista del sociaiimperialismo sviluppata da Cunningham, Ashley e altri sono accomunate da una stessa prospettiva sociologica. Le scarse prove finora raccolte suggeriscono che i partiti socialisti e laburisti europei abbiano offerto poca resistenza alle politiche espansionistiche dei loro rispettivi governi (5). (…) L’idea che l’acquisto di nuovi territori, accompagnato da un aumento della ricchezza dello stato, sia un modo per mediare i conflitti interni è tutt’altro che nuova nella storia moderna. Nel 1608 Francesco Bacone, consigliere di Giacomo I, sosteneva che la colonizzazione dell’Irlanda avrebbe alleviato il sovrappopolamento dell’Inghilterra, ridotto il rischio di ribellioni dovute a carestie e contemporaneamente rafforzato l’autorità della corona (7). A distanza di due secoli, in America James Madison chiedeva l’espansione lungo la frontiera occidentale per risolvere il conflitto tra regioni che sempre più andavano differenziandosi secondo interessi economici settoriali. «Più la società è piccola, meno saranno probabilmente i partiti e gli interessi che la compongono; minore è il numero di partiti e interessi, più sarà facile trovare una maggioranza all’interno di uno stesso partito; minore è il numero di individui che costituiscono una maggioranza e più ristretta la sfera in cui si collocano; tanto più facile sarà per loro concertare e realizzare i loro piani di oppressione. Allargate la sfera e inglobate una maggiore varietà di partiti e di interessi; renderete meno probabile che una maggioranza abbia un comune motivo per calpestare i diritti degli altri cittadini; ovvero, se tale motivo esiste, sarà più difficile per tutti coloro che lo sentono scoprire la propria forza e agire all’unisono» (8). Questa argomentazione è analoga a quella formulata a distanza di un secolo F.J. Turner nella teoria della frontiera (9). Entrambi gli autori pensarono che l’espansione territoriale portasse all’insieme della società conseguenze favorevoli per la democrazia. Nei secoli XIX e XX socialisti e capitalisti insieme suggerivano che l’espansione imperiale poteva, grazie a un aumento assoluto dei salari e del tenore di vita, consentire al proletariato delle metropoli di sfuggire all’immiserimento. Engels osservò che gli operai inglesi per certi aspetti si andavano trasformando in una borghesia: «Il proletariato inglese sta diventando sempre più borghese, cosicché la più borghese di tutte le nazioni tende in ultima analisi ad avere un’aristocrazia borghese e un proletariato borghese ‘oltre’ a una borghesia. Per una nazione che sfrutta tutto il mondo ciò è naturalmente in una certa misura giustificabile» (10). Lenin sviluppò questo tema affermando che gli alti profitti monopolistici ricevuti dai capitalisti «hanno la possibilità di corrompere singoli strati di operai e, transitoriamente, persino considerevoli minoranze di essi, schierandole a fianco della borghesia del rispettivo ramo industriale o della rispettiva nazione contro tutte le altre. Questa tendenza è rafforzata dall’aspro antagonismo esistente tra i popoli imperialisti a motivo della spartizione del mondo» (11). In tal modo la nozione di «aristocrazia operaia» – riferita in origine alla minoranza privilegiata di operai metropolitani appartenenti allo strato più alto – venne adottata per indicare più in generale le differenze di status all’interno del proletariato internazionale (12). Mentre da un lato i socialisti, quali Lenin, Michels (13) e Gramsci (14), seguivano con crescente apprensione la preferenza che la classe operaia degli stati espansionisti mostrava per gli interessi nazionalisti di breve termine anziché per quelli internazionali di lungo periodo, d’altro lato alcuni capitalisti dell’epoca vedevano nell’imperialismo l’unico modo per salvarsi da un conflitto di classe altrimenti inevitabile. Sono state così riferite le parole che Cecil Rodhes avrebbe pronunciato nel 1885: «Ieri mi trovavo nell’East End di Londra, dove assistetti a un comizio di disoccupati: facevano discorsi infuriati, che si possono riassumere nel grido di «pane». Mentre tornavo a casa, ripensando alla scena mi convinsi più che mai dell’importanza dell’imperialismo (…). L’idea che avevo in mente era la soluzione del problema sociale, cioè che per salvare 40.000.000 di abitanti del Regno Unito da una sanguinosa guerra civile, noi statisti coloniali dovremmo acquistare nuove terre per sistemare la popolazione eccedente, e fornire nuovi mercati ai beni da loro prodotti nelle fabbriche e nelle miniere. L’impero, come ripeto da sempre, è una questione di sopravvivenza. Se vuoi evitare una guerra civile devi diventare imperialista» (15). Al pari di molti suoi contemporanei britannici, Rhodes fu uno dei promotori di una politica che univa all’espansione imperiale una legislazione assistenziale a favore della classe operaia, nota in seguito come «socialimperialismo», «il cui scopo era quello di chiamare a raccolta tutte le classi in difesa della nazione e convincere la classe meno agiata che i suoi interessi erano da quella inseparabili; mirava a scalzare la tesi dei socialisti, dimostrando che gli operai, contrariamente all’affermazione marxista, avevano da perdere qualcosa di più delle loro catene (16). I concetti gemelli di «aristocrazia operaia» internazionale nella letteratura marxista e di socialimperialismo in quella nazionalista presentano straordinarie analogie in tutto fuorché nelle loro valutazioni soggettive” (pag 224-227) [(5) Tra i pochi studi sull’argomento vedi la sintesi di H.B. Davis, ‘Nationalism and Socialism’, New York, Monthly Review Press, 1967, cap. 5; (7) F. Bacon, ‘Certain Considerations touching the Plantation in Ireland’, in C. Maxwell, ‘Irish History from Contemporary Sources’, London, Allen & Unwin, 1923, p. 270; (8) J. Madison, in «The Federalist», X, pp. 60-1; (9) W.A. Williams, ‘The Tragedy of American’, New York, Dell, 1962, p. 20; (10) K. Marx F. Engels, ‘Selected Correspondence’ (1934), citato in E.J. Hobsbawm, ‘The Labor Aristocracy in Nineteenth-Century Britain’, in ‘Laboring Men’, New York, Basic, 1967, p. 356 (trad. it. ‘L’aristocrazia operaia nella Gran Bretagna del XIX secolo’, in ‘Studi di storia del movimento operaio’, Torino, Einaudi 1972, pp. 353-4); (11) V.I. Lenin, ‘L’imperialismo’, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 168; (12) Per Karl Polanyi il principale vantaggio dell’operaio metropolitano consisteva nella protezione accordatagli dal governo di fronte all’anarchia di mercato. «La rivolta conro l’imperialismo era soprattutto un tentativo da parte di popolazioni esotiche di raggiungere la condizione politica necessaria a ripararsi dagli sconvolgimenti sociali causati dalla politica commerciale europea. La protezione che l’uomo bianco poteva assicurarsi per mezzo della condizione di sovranità delle sue comunità era fuori della portata dell’uomo di colore fino a che egli mancava del prerequisito di un governo politico»: K. Polanyi, ‘The Great Transformation’, Boston, Beacon, 1957, p. 183 [trad. it. ‘La grande trasformazione’, Torino, Einaudi, 1974, p. 234]; (13) «Mentre (…) questa concezione di una comunità di interessi nella sfera nazionale tra la borghesia e il proletariato ha una base di realtà, non può esservi dubbio che non soltanto essa è nettamente antagonistica all”idealismo’ di classe, vale a dire al fraterno affetto che nega la solidarietà nazionale per affermare con entusiasmo la solidarietà internazionale del proletariato, tendendo e mirando a una rapida emancipazione di classe, ma che inoltre mina alla base il ‘concetto’ di classe. «
Il concetto socialdemocratico di classe mira all’ingrandimento della patria e alla prosperità del suo proletariato e dalla sua borghesia attraverso la rovina del proletariato degli altri paesi»: R. Michels, ‘Political Parties’, New York, International Publishing Company, 1968, p. 360; (14) E’ significativa la descrizione di Gramsci del soldato italiano meridionale portato al nord contro gli operai in sciopero, che si giustifica affermando che questi sono, ai suoi occhi, dei «signori»: A. Gramsci, ‘La costruzione del partito comunista’, Torino, Einaudi, 1971, p. 143; (15) V.I. Lenin, op. cit., p. 117; (16) B. Semmel, ‘Imperialism and Social Reform’, New York, Peter Smith, 1968, p. 132] [Lenin-Bibliographical-Materials] [LBM*]