“In quali condizioni può attuarsi la nazionalizzazione? Tra i marxisti si trova spesso chi sostiene che la nazionalizzazione non sarà attuabile se non nello stadio superiore di sviluppo del capitalismo, quando il capitalismo avrà già completamente preparato le condizioni per la «separazione dei proprietari fondiari dall’agricoltura» (attraverso l’affitto e l’ipoteca). Si presume che la grande agricoltura capitalistica debba formarsi ‘prima’ che divenga attuabile la nazionalizzazione della terra, la quale amputa la rendita ma lascia intatto l’organismo economico (1). E’ giusta quest’opinione? Essa non può avere un fondamento teorico: non è possibile sostenerla con argomenti presi da Marx; i dati dell’esperienza le sono piuttosto contrari. Dal punto di vista teorico, la nazionalizzazione è lo sviluppo «idealmente» puro del capitalismo nell’agricoltura. Tutt’altra cosa è invece la questione di sapere se nella storia si trovino frequentemente realizzate le combinazioni di fattori e una correlazione di forze che rendano possibile la nazionalizzazione nella società capitalistica. Ma la nazionalizzazione non è soltanto il risultato del rapido sviluppo del capitalismo, ne è anche la condizione. Pensare che la nazionalizzazione non sia possibile se non con uno sviluppo elevatissimo del capitalismo nell’agricoltura, significa certo negare la nazionalizzazione come misura del progresso ‘borghese’, perché l’elevato sviluppo del capitalismo agricolo ha già messo ovunque all’ordine del giorno (e, a suo tempo, metterà all’ordine dei giorno in nuovi paesi) la «socializzazione della produzione agricola», la rivoluzione socialista. Una misura che promuove il progresso borghese non può concepirsi come tale se la lotta di classe tra il proletariato e la borghesia è molto aspra. Una tale misura è piuttosto connaturata a una «giovane» società borghese che non ha ancora sviluppato le sue contraddizioni fino in fondo, che non ha ancora creato un proletariato talmente forte da tendere immediatamente alla rivoluzione socialista. Anche Marx ammetteva la nazionalizzazione e spesso la difendeva apertamente non soltanto all’epoca della rivoluzione tedesca del 1848, ma anche nel 1846 per l’America (2), a proposito della quale egli diceva già a quel tempo, con assoluta precisione, che essa ‘era appena agli inizi’ dello sviluppo «industriale». L’esperienza dei diversi paesi capitalistici non ci offre esempi di nazionalizzazione della terra in una forma più o meno pura. Troviamo qualche cosa di simile alla nazionalizzazione nella Nuova Zelanda, dove esiste una giovane democrazia capitalistica e dove non si potrebbe neppure parlare di un elevato sviluppo del capitalismo agricolo. Qualche cosa di simile alla nazionalizzazione si è avuto in America quando lo Stato promulgò la legge sugli ‘homesteads’ e distribuì degli appezzamenti ai piccoli coltivatori contro il pagamento della rendita nominale. No. Pretendere che la nazionalizzazione sia realizzabile soltanto nell’epoca del capitalismo altamente sviluppato, significa negarla in quanto misura di progresso borghese. E questa negazione è in aperto contrasto con la teoria economica. Mi pare che Marx, nelle seguenti considerazioni che noi togliamo dalle ‘Teorie del plusvalore’, abbia definito in modo ‘ben diverso’ da quello che si pensa di solito le condizioni nelle quali è possibile nazionalizzare le terre. Dopo aver dimostrato che il proprietario fondiario è una figura del tutto superflua nella produzione capitalistica, che il fine di quest’ultima è «pienamente raggiungibile» se la terra appartiene allo Stato, Marx continua: «Perciò il borghese radicale giunge in teoria alla negazione della proprietà della terra… Ma in pratica gli manca il coraggio, perché l’attacco contro una delle forme di proprietà – contro la forma della proprietà privata delle condizioni di lavoro – sarebbe pericolosissimo anche per l’altra forma di proprietà. Inoltre, il borghese si è egli steso territorializzato» (‘Theorien über den Mehrwert’, II Band, 1 Teil, S. 208). Marx non indica qui lo scarso sviluppo del capitalismo nell’agricoltura come un ostacolo all’attuazione della nazionalizzazione. Egli indica ‘due’ altri ostacoli, ma essi convalidano l’idea che la nazionalizzazione è attuabile nel periodo della ‘rivoluzione borghese’. Primo ostacolo: al borghese radicale ‘manca il coraggio’ di attaccare la proprietà privata fondiaria, dato il pericolo di ogni attacco socialista contro ogni forma di proprietà privata, o, in altri termini, dato il pericolo della rivoluzione socialista. Secondo ostacolo: «il borghese si è egli stesso territorializzato». Marx allude indubbiamente al fatto che il modo di produzione borghese si è già consolidato nella proprietà privata delle terre, vale a dire che questa proprietà privata è divenuta assai più borghese che feudale. Quando la borghesia, considerata come classe, si è già legata in grandissima maggioranza alla proprietà fondiaria, «si è territorializzata», «si è insediata sulla terra», ha pienamente subordinato a sé la proprietà fondiaria, ‘non può’ esservi un movimento veramente ‘sociale’ della borghesia in favore della nazionalizzazione. E non può esservi per la semplice ragione che nessuna classe sociale agisce contro se stessa. In linea generale, questi due ostacoli possono essere eliminati soltanto nel periodo dell’inizio del capitalismo, e non nel periodo della sua fine; nel periodo della rivoluzione ‘borghese’, e non alla vigilia della rivoluzione socialista. L’opinione secondo la quale la nazionalizzazione non è realizzabile se non quando esista un capitalismo altamente sviluppato non può essere chiamata una opinione marxista. Essa è in contraddizione con le premesse generali della teoria di Marx e con le sue parole da noi citate. Essa ‘riduce’ a un’astrazione pura e schematica il problema dei fattori storici concreti della nazionalizzazione come provvedimento preso da determinate classi e forze sociali. Il «borghese radicale» ‘non può’ essere ‘coraggioso’ nell’epoca del capitalismo fortemente sviluppato. In una tale epoca questo borghese, in complesso, è già inevitabilmente controrivoluzionario. In una tale epoca la «territorializzazione» quasi completa della borghesia è già inevitabile. Per contro, nell’epoca della rivoluzione borghese, le condizioni ‘obiettive’ costringono il «borghese radicale» a essere coraggioso, perché, egli, adempiendo il compito storico del suo tempo, non può ancora temere, come classe, la rivoluzione ‘proletaria’. Nell’epoca della rivoluzione borghese, la borghesia ‘non si è ancora territorializzata’: la proprietà fondiaria è ancora impregnata di feudalesimo. Può allora accadere che la massa degli agricoltori borghesi, dei ‘farmers’, combatta le ‘principali’ forme esistenti del possesso della terra e perciò giunga praticamente ad attuare il ‘completo’ «affrancamento» borghese «della terra», ‘cioè la nazionalizzazione'” [Lenin, ‘Il programma agrario della socialdemocrazia nella rivoluzione russa del 1905-1907. Le basi teoriche della nazionalizzazione e della municipalizzazione’, novembre-dicembre 1907] [(in) Lenin, ‘Teoria della questione agraria’, Roma, 1972] [(1) Ecco una delle più precise formulazioni di quest’opinione; data dal compagno Borisov, sostenitore della spartizione: «…in seguito essa [la rivendicazione della nazionalizzazione della terra] sarà posta dalla storia, e sarà posta quando la piccola azienda borghese decadrà, quando il capitalismo avrà conquistato nell’agricoltura posizioni solide, e la Russia non sarà più un paese contadino» (p. 127 dei ‘Verbali del Congresso di Stoccolma’; (2) Cfr. nel presente volume, pp. 203-209, ndt] [Lenin-Bibliographical-Materials] [LBM*]