“Negli anni Venti, ad ogni buon conto, il socialdemocratico Otto Bauer, un austromarxista tra i più indulgenti nei confronti dell’esperienza sovietica, aveva sostenuto che l’egemonia del proletariato sopra i contadini numericamente predominanti comportava in Russia l’inevitabile dittatura di un piccolo partito proletario attivo sulla gran massa della popolazione lavoratrice estranea alla politica (‘Der Kampf um Matcht’, 1924). L’equazione era evidente: l’egemonia del proletariato minoritario era resa possibile solo dalla dittatura del partito, identificabile a sua volta come minoranza politica (i bolscevichi) di una minoranza sociale (gli operai). Negli anni Trenta lo stesso Bauer, davanti ai ritmi imposti dai piani quinquennali all’industrializzazione di Stato, individuò tuttavia nell’Urss una «dittatura di sviluppo», vale a dire un regime che stava costruendo i prerequisiti del proprio futuro. Concluso il traumatico sviluppo, sarebbe arrivata la democrazia. E con essa il socialismo. Posizione, questa, che, negli anni Sessanta e Settanta, sarà condivisa, nello stesso Occidente, ma senza nulla ipotizzare sullo sbocco socialista, da una parte della sociologia della modernizzazione e da una parte della storiografia. Quando tuttavia venne troncata la Nep e avviata la collettivizzazione forzata, solo una parte dei socialdemocratici europei fece proprie le posizioni critiche, ma sostanzialmente ottimistiche, di Bauer. Il settantaseienne Kautsky, nel 1930, (‘Der Bolschewismus in der Sackgasse’), dal canto suo, vide in atto una controrivoluzione rispetto alla stessa e disapprovatissima rivoluzione del 1917-1918. Il regime che ormai cominciava ad essere definito «staliniano», o bolscevico-stalinista, per non cedere al mondo contadino, lo stava violentemente assoggettando «dall’alto». Un nuovo assetto sociale burocratico-schiavistico, non capitalistico, e ovviamente non socialistico, stava venendo alla luce. Non era semplicemente «regressivo», o incapace di fuoriuscire dallo zarismo, come si pensava negli anni precedenti. Era una creatura in via di apparizione, con le «classi» ridotte a «ordini» o a «caste» irrigidite, e con i comunisti, nelle cui mani era concentrato tutto il potere, trasformati in classe signorile («Herrenklasse»). Non si aveva a che fare solo con la dittatura, con il dispostismo, con l’autoritarismo. Era tutta la concezione materialistica della storia, tanto cara a Kautsky, che risultava sottosopra. La burocrazia, infatti, sino a quel momento una semplice «funzione», o anche una sorta di protesi tecnico-amministrativa, si era inopinatamente autonomizzata. La sovrastruttura politica, poi, stava dettando legge alla struttura economica e sociale. La discussione sulla natura sociale, nell’età staliniana, stava insomma diventando un interrogativo sul corso del mondo. Intanto, la grande crisi e il tramonto del capitalismo liberale ottocentesco stavano ponendo, in quello stesso torno di tempo, nuovi problemi. L’austromarxista Lucien Laurat, pseudonimo di Otto Maschl, sostenne così nel 1931 (‘L’Économie soviétique’), che in Urss vigeva un’economia ‘diretta’ che aveva smarrito ogni legame con l’iniziale programma socialista. Il mondo circostante, tuttavia, dimostrava inequivocabilmente che per uscire dall’anarchia capitalistica era necessario un ‘piano’, come Hilferding e altri socialdemocratici tedeschi avevano già suggerito, ben prima del 1929, in merito all’economia di Weimar” (pag 372-273) [Bruno Bongiovanni, ‘Le interpretazioni socialiste dell’Urss’, (in) Franco Sbarberi, a cura, ‘La forza dei bisogni e le ragioni della libertà. Il comunismo nella riflessione liberale e democratica del Novecento’, Diabasis edizioni, Reggio Emilia, 2008]
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- Articolo pubblicato:10 Marzo 2025