“Con il modo di produzione capitalistico, secondo Marx, i valori culturali così come le forze fisiche e psichiche degli uomini sono diventati merci. Sulla libertà dell’uomo, sulle possibilità delle sua vita decide direttamente la situazione del mercato del lavoro, e questa dipende a sua volta dalla dinamica di tutta la società. Come viene rovesciata la problematica della filosofia borghese, è rovesciata anche la sua teoria dei due regni della libertà e della necessità e il loro rapporto di fondazione. La sfera della produzione materiale è e resta un «regno della necessità»: una continua lotta con la natura, determinata dalla «necessità e finalità esterna», vincolata alle «più o meno ricche condizioni della produzione» in cui si compie (1). Ma anche questo regno della necessità ha una sua libertà: anche se non si tratta di una libertà «trascendentale», che lascia sussistere la necessità e si accontenta di un’esistenza «interna». Se Marx aveva già ricondotto il concetto della necessità al suo contenuto, accogliendo in esso la reale necessità dell’uomo, la sua lotta con la natura per la propria esistenza, lo stesso fa ora con il concetto di libertà. «In questa sfera la libertà può solo consistere nel fatto che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, anziché esserne dominati come da una forza cieca; lo compiono col minimo dispendio di energia e nelle condizioni più degne della natura umana e ad essa più adeguate» (2). Per la prima volta la libertà è concepita come un modo della prassi umana reale, come compito della consapevole organizzazione sociale. È entrata a far parte del suo contenuto la felicità terrena degli uomini, sotto il titolo di «condizioni degne e più adeguate» alla natura umana: la soppressione della necessità «esterna» e della servitù «esterna» rientrano nel senso di questo concetto di libertà. Eppure c’è ancora una libertà «più alta»: uno «sviluppo delle forze umane» che non avviene solo sotto l’impulso della necessità e della finalità esterna, «si pone come fine a se stesso». Esso inizia solo «al di là» della sfera della produzione materiale, che resta pur «sempre un regno della necessità». Ma suo presupposto è quella organizzazione razionale della società: «Il vero regno della libertà» può «sorgere solo sulla base di quel regno della necessità… La riduzione della giornata lavorativa è la sua condizione fondamentale» (3). «La riduzione della giornata lavorativa è la sua condizione fondamentale»: questa frase si riferisce all’ingiustizia che ha dominato uno sviluppo secolare, e sintetizza la sofferenza e le aspirazioni di intere generazioni. Riconoscendo nella libertà un compito dell’organizzazione del processo lavorativo sociale, e determinando il modo di questa organizzazione, Marx ha indicato la via dal regno della necessità al regno della libertà, che rappresenta bensì ancor sempre un aldilà, ma non più l’aldilà trascendentale che è eternamente antecedente agli uomini, o quello religioso, che deve eliminare la loro miseria quando essi non sono più, ma l’aldilà che si possono creare gli uomini stessi, se trasformeranno un ordine sociale che è diventato cattivo. Il totale rovesciamento del problema della libertà, per cui il regno della libertà è inteso, ora, come una determinata organizzazione «terrena» della società fondata sul regno della necessità, è solo un momento di quel generale rovesciamento per cui i rapporti materiali di produzione della società sono intesi come base di tutta la «sovrastruttura» politica e culturale e delle forme di coscienza che le corrispondono” (pag 106-108) [Herbert Marcuse, ‘L’autorità e la famiglia. Introduzione storica al problema’, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1970] [(1) Marx, ‘Das Kapital’, Ed. Meissner, Hamburg,, trad. it, Il Capitale, Rinascita; Roma; 1991, III, 3, p. 231; (2) Ibid., III, 3, p. 232; (3) Ibid., III, 3, p. 252]
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- Articolo pubblicato:21 Gennaio 2025