“L’operaio, continua Marx, non è solo alienato dai prodotti che crea: «Ma l’estraniazione si mostra non soltanto nel risultato, ma anche nel processo della produzione, entro la stessa attività produttiva» (5). Poi ritorna ancora all’analogia tra l’alienazione del lavoro e l’alienazione religiosa: «Come nella religione, l’attività propria della fantasia umana, del cervello umano e del cuore umano influisce sull’individuo indipendentemente dall’individuo, come un’attività estranea, divina o diabolica, così l’attività dell’operaio non è la sua propria attività» (6). Dal concetto di lavoro alienato, Marx passa al concetto dell’estraniazione dell’uomo da se stesso, dai propri simili e dalla natura. Egli definisce il lavoro nella sua forma originale e non alienata «un’attività della vita, la vita produttiva» (‘Lebenstaetigkeit, das produktive Leben’), e poi definisce il carattere dell’uomo in quanto essere appartenente a una specie come «un’attività libera e consapevole» (‘freie bewusste Taetigkeit’). Nel lavoro alienato, l’attività libera e consapevole dell’uomo si degrada nell’attività alienata e «… la sua vita di essere che appartiene ad una specie diventa per lui un mezzo» (7). Come risulta da quanto ho sopra affermato, Marx non solo si interessa dell’estraniazione dell’uomo dal suo prodotto o dall’alienazione prodotta dal lavoro, ma si interessa anche dell’estraniazione dell’uomo dalla vita, da se stesso e dal suo simile. (…) Quindi l’alienazione per Marx è la malattia dell’uomo; non è una malattia nuova poiché ha necessariamente origine con l’inizio della divisione del lavoro cioè della civiltà che trascende la società primitiva; essa è più fortemente sviluppata nella classe operaia, tuttavia è una malattia della quale tutti soffrono. (…). Marx espresse questa idea del socialismo e dell’attuazione della libertà alla fine del terzo volume del Capitale nel passo seguente: «Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa, il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità» (14)” (pag 49, 51-52) [Erich Fromm, ‘Marx e Freud’, Est, Milano, 1997] [(5) ‘Manoscritti economico-filosofici’, trad. it., cit., p. 72; (6) Ibid., p. 75; (7) Ibid., p. 79; (14) ‘Il capitale’, trad. it., cit., vol. III, tomo III, pp. 231-232]
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- Articolo pubblicato:21 Dicembre 2024