“Lukàcs viene così ad affermare: «il profondo fraintendimento di Engels consiste nel fatto che egli considera come prassi – in senso dialettico-filosofico – il comportamento caratteristico nell’industria e nell’esperimento. Ma proprio l’esperimento implica un comportamento per eccellenza contemplativo. Lo sperimentatore crea un ambiente artificiale astratto, per poter osservare liberamente le leggi nel loro operare indisturbato: egli cerca di ridurre il sostrato materiale della sua osservazione – (…) – a ciò che viene «generato» in modo puramente razionale, alla «materia intelligibile» della matematica. E quando Engels, a proposito dell’industria, dice che ciò che è così «generato» viene reso utilizzabile «ai nostri scopi», sembra aver dimenticato per un istante la fondamentale struttura della società capitalistica (…). Sembra cioè aver dimenticato che la «legge di natura» di cui si tratta nella società capitalistica «poggia sull’inconsapevolezza dei partecipanti». Nel momento in cui si pone «degli scopi» l’industria non è soggetto delle leggi sociali, ma soltanto oggetto» («Histoire et conscience de classe», ed. francese, Les Editions de Minuit, 1960; p. 168, traduzione e «riduzione» nostra). A Engels viene dunque, da questo punto di vista, rimproverato un accantonamento della teoria in nome della prassi, e quindi un cambiamento di significato del concetto di prassi stessa, che si identificherebbe con la prassi scientifica e tecnologia ‘tout-court’, dell’industria moderna. E in tal senso è interpretato l’appello engelsiano alla ‘prassi’ nel processo conoscitivo” (pag 174) [Eleonora Fiorani, ‘Lettura e critica di Lukàcs’, ‘Che fare’, Milano, n. 2, 1973]