“Immediatamente dopo la rivoluzione d’ottobre, il partito bolscevico tentò dapprima di portare avanti nel paese quel processo rivoluzionario che gli aveva reso possibile la presa del potere. Ciò significava innanzitutto – oltre all’ulteriore democratizzazione dell’esercito – la legalizzazione della rivoluzione agraria e della presa di possesso delle fabbriche da parte degli operai. In questo senso furono concepiti i primi decreti del potere dei soviet. Alla base del decreto sulla terra, che fu promulgato dal secondo congresso dei soviet di tutta la Russia il 26 ottobre 1917, c’era quell’istruzione modello che era stata presentata al primo congresso panrusso dei deputati contadini nel maggio dello stesso anno e che corrispondeva essenzialmente alle tradizionali richieste socialrivoluzionarie. Da questo momento il terreno non poté più essere comprato o venduto, pignorato o alienato in qualsiasi altro modo. Furono fissati inoltre un usufrutto del terreno sulla base del lavoro o dell’uso e una nuova spartizione periodica del terreno stesso. “L’essenziale”, dichiarò Lenin nel suo ‘Rapporto sulla questione della terra’, “è che i contadini abbiano la ferma convinzione che i grandi proprietari fondiari non esistono più nelle campagne, che i contadini risolvano essi stessi i loro problemi, che essi stessi organizzino la loro vita” (1). Anche la legge fondiaria del febbraio 1918 si orientò sui desideri dei contadini, quali erano stati formulati nel programma dei socialrivoluzionari. In base a questa legge tutta la terra passò in usufrutto al popolo lavoratore. Chiunque ne facesse richiesta – indipendentemente dal sesso, dalla religione, dalla nazione o dallo Stato di appartenenza – aveva ora diritto a un appezzamento di terreno. La terra doveva essere distribuita in modo uniforme; affitti e lavoro salariato furono proibiti. Al fine di ottenere il maggior livellamento possibile non si evitò – soprattutto in aree in cui la terra era particolarmente scarsa – di ricorrere anche a nuove distribuzioni del terreno di proprietà dei contadini. Non raramente si comprese in queste spartizioni addirittura la terra dei padroni. In tal modo avrebbe dovuto essere eliminata ogni differenziazione tra i contadini ed essere instaurata un’uguaglianza totale. D’altra parte l’uniformazione del terreno in generale era realizzabile solo sul piano locale, all’interno dei singoli distretti amministrativi. Il sogno dell’intera comunità agricola russa, quello di realizzare un livellamento che si estendesse all’intero Impero russo, non era possibile perchè avrebbe significato il trasferimento di più di venti milioni di contadini. I contadini non volevano trasferirsi, ma avere un appezzamento di terra nella loro patria. Avvenne così che in molte aree fittamente popolate della Russia centrale toccò solo mezzo ettaro di terra per persona, mentre in altre parti del paese rimase incolto terreno più fertile. Nella primavera del 1918 la distribuzione della terra era ormai conclusa nella maggior parte dell’Impero russo. I risultati non corrisposero peraltro ai desideri e alle attese dei contadini. Benché fossero stati distribuiti quasi per intero i possedimenti della nobiltà, dei monasteri, del demanio statale e della famiglia dello zar – per un totale di 150 milioni di desiatine -, l’aumento della terra in dotazione ai singoli contadini rimase in media minimo ed ebbe qualche importanza solo per gli strati della popolazione più miseri. Il generale bisogno di terra rimase pertanto insoddisfatto. Questo fatto si spiega soprattutto pensando che anche prima della rivoluzione i contadini avevano lavorato – per lo più come terra in affitto – quasi la metà del latifondo. Inoltre, in seguito alla nuova legislazione agraria, il numero degli aventi diritto a una quota di terra era maggiore che in passato. Il crollo dell’economia russa e la fame nelle città e nei centri industriali sospinsero milioni di uomini nelle campagne, dove a termini di legge doveva essere ceduta loro una quota di terra. Spesso mancavano anche i mezzi per coltivare la terra avuta per legge. Per i terreni già appartenenti al demanio statale erano necessari innanzitutto grandi investimenti per renderli dissodabili. Così, per la maggior parte dei contadini il significato della rivoluzione agraria risiedette non nel guadagno di terre, ma nel fatto che attraverso l’assegnazione venivano liberati dagli alti affitti e debiti, oltre che dalla dipendenza semifeudale dai proprietari terrieri, dipendenza che in passato era stata la causa principale del loro impoverimento. Mentre i contadini, con l’appoggio del potere sovietico, realizzavano la distribuzione nera, anche gli operai portavano a compimento la loro presa di possesso nei confronti dell’industria. Nel novembre 1917 i loro sforzi furono legalizzati dal decreto sul controllo degli operai. (…)” (pag 316-317); “Fin dall’inizio i bolscevichi non ebbero alcun dubbio sul fatto che alla lunga essi non avrebbero potuto affermare il loro potere in un paese agricolo arretrato. Un’agricoltura frantumata in milioni di aziende piccole e minime non costituiva una base sociale stabile. Già nel dicembre 1920 Lenin aveva spiegato, in connessione con la discussione sul piano GOELRO [‘piano per l’elettrificazione e la riorganizzazione dell’industria russa’]: “Fino a che viviamo in un paese di piccoli contadini, la base economica per il capitalismo è in Russia più solida della base economica per il comunismo”. E aveva aggiunto: “Solo quando il paese sarà stato elettrificato, solo quando all’industria, all’agricoltura e ai trasporti sarà stata garantita la base tecnica della grande industria moderna, solo allora avremo vinto definitivamente” (7). Il governo sovietico si teneva dunque fermo alla concezione marxista tradizionale secondo cui il socialismo sarebbe realizzabile solo sulla base di forze tecnico-produttive altamente sviluppate. Si sperava che attraverso l’industrializzazione non solo il paese avrebbe avuto una grande industria moderna, ma l’intera agricoltura avrebbe potuto avere una nuova base tecnica. Non ci si facevano peraltro illusioni sulle difficoltà immense connesse con l’industrializzazione di un paese agricolo arretrato, soprattutto da quando ci si rese conto che i paesi stranieri non erano disposti a dare quel generoso aiuto su cui in principio si era contato. All’inizio degli anni Venti il governo sovietico aveva fatto tutti gli sforzi possibili per ottenere prestiti da Stati stranieri o investimenti privati diretti, offrendo a gruppi finanziari privati concessioni per lo sfruttamento delle risorse del sottosuolo russo e fruttuose partecipazioni in imprese industriali e commerciali russe. Nelle conferenze economiche internazionali tenutesi a Genova e all’Aja nel 1922 i sovietici fecero tutto il possibile per indurre i governi dei paesi dell’Europa occidentale a una cooperazione economica a lungo termine. Questi chiesero però come condizione preliminare il riconoscimento incondizionato dei debiti russi prebellici e bellici e la totale restituzione delle proprietà straniere nazionalizzate e tutta una serie di richieste che, se accettate, avrebbero messo la Russia sovietica in una condizione di dipendenza non diversa da quella della Cina o dell’India. Tutti gli sforzi per ottenere crediti cospicui e a lungo termine erano pertanto destinati al fallimento. L’unico grande credito concesso all’Unione Sovietica fu quello tedesco di 300 milioni di marchi, nel 1926. Anche il grandioso programma di concessioni su cui soprattutto Lenin sperava molto fallì quasi totalmente, nonostante le buone possibilità di profitto per il capitale straniero. Motivi politici e condizioni di lavoro sfavorevoli impedirono investimenti di capitali a lunga scadenza. Nell’anno finanziario 1926-1927 gli investimenti stranieri nell’industria russa non raggiungevano l’1 per cento del capitale d’investimento complessivo” [Carsten Goehrke Manfred Hellmann Richard Lorenz Peter Scheibert, ‘Russia’, Milano, 1977] [(1) Lenin, Opere scelte, cit., p. 1003; (7) Lenin, Opere complete, vol. 31,
Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 495] [Lenin-Bibliographical-Materials] [LBM*]