“In realtà, per Marx, il sistema economico capitalistico, le cui caratteristiche strutturali egli analizza, non si sviluppa secondo un ‘trend’ continuo, bensì a sbalzi, attraverso il susseguirsi di «fluttuazioni cicliche»: i cicli, caratterizzati da «crisi» periodiche di rottura del processo capitalistico, conducono alla «crisi generale» del sistema. Le crisi non sono quindi nel sistema marxiano analizzate come fenomeni casuali, ma come manifestazioni del procedere contraddittorio del modo di produzione borghese; il sistema si sviluppa tendenzialmente secondo la legge storica di caduta tendenziale del saggio di profitto, ma questo trend non è lineare e si manifesta in forma ciclica. Pur non svolgendo un’analisi compiuta del fenomeno delle fluttuazioni e delle crisi, Marx ne indica nel corso del ‘Capitale’ alcune forme e cause laddove egli tratta dell’introduzione discontinua di progressi tecnici e delle conseguenze dell’abbassamento del saggio di profitto. Un segno evidente del procedere del sistema in forma ciclica è indicato nell’espansione e nella contrazione dell’«armata di riserva»; questo fenomeno è da Marx considerato il riflesso dell’introduzione di innovazioni tecnologiche che a sua volta è la conseguenza della volontà di contrarre i salari per aumentare l’accumulazione: ciò – si è visto – provoca una diminuzione del saggio di profitto, cioè quel calo degli investimenti che genera la crisi. Questa stessa interruzione del processo provoca però anche il licenziamento di parte dei lavoratori, la riduzione dei salari degli occupati, il conseguente aumento del plusvalore, cioè la «ripresa» del sistema (16). Il fenomeno delle crisi è considerato da Marx anche come la diretta conseguenza del comportamento naturale del capitalista, il quale ha come obiettivo principale della propria intrapresa la realizzazione del profitto e, qualora necessario, è pronto anche ad astenersi momentaneamente dall’investire (trattenendo capitale in forma monetaria) se le prospettive non si rivelano profittevoli: in ciò consiste la «metamorfosi» della merce stessa, la separazione tra acquisto e vendita, fra denaro e merce. In questo secondo caso le crisi si configurano non come effetti del processo di accumulazione, bensì come interruzioni del processo di circolazione destinate ad accentuarsi e ad intensificarsi via via che nel sistema diminuisce il saggio di profitto (17). Queste intuizioni di Marx in tema di cicli vengono espresse in anni in cui gli sconvolgimenti all’interno del sistema bancario inglese (1847-1857) richiamano l’interesse degli economisti attorno ai fenomeni delle crisi e delle loro cause. In particolare, è il francese Clément Juglar (1819-1905) ad inserire per primo l’analisi delle crisi all’interno della nozione di ciclo, passando dal concetto «patologico» della crisi a quello «fisiologico» del ciclo ed a individuare la durata media di questo in otto anni scanditi dal verificarsi di brevi e violente crisi commerciali, le quali influenzano – in misure e con modalità diverse – l’intera vita economica del mercato mondiale. Secondo il profilo da lui tracciato, ad ogni periodo di prosperità (che è caratterizzato da un aumento dei prezzi e da un progressivo abuso del credito) segue la crisi (con una caduta improvvisa di «fiducia» e dei prezzi), a questa «liquidazione» delle imprese più deboli e così, nuovamente, la prosperità. Nel Novecento questi temi occuperanno parte consistente della letteratura economica sia nell’ambito della teoria marginalista, sia – attraverso le «novità» di Kalecki (1899-1970) e di Keynes – nei modelli di Harrod (1900-1978), di Hicks e dei loro allievi (18). Nell’ambito della tradizione marxista, è stato Paul Marlor Sweezy (n. 1910), esponente dell’ala statunitense contemporanea, ad analizzare questo aspetto del complesso sviluppo del sistema capitalistico. Egli pone l’accento sulla necessità di distinguere tra: a) crisi che nascono dal processo di accumulazione, cioè legate al fenomeno della caduta tendenziale del saggio di profitto; b) crisi «di realizzo», che nascono nel processo di circolazione, dovute o alla «sproporzione» trai vari settori della produzione o, c) al sottoconsumo delle masse (19). Per quanto riguarda il primo tipo di crisi, l’economista tedesco Rudolf Hilferding teorizza la loro persistenza all’interno dell’economia borghese anche dopo la sua trasformazione in capitalismo finanziario (20). In questo nuovo tipo di società retta da un «cartello» generale e dalla banca centrale che decidono sulla distribuzione del prodotto, infatti, si verifica (così come nella fase precedente) quel costante aumento della composizione organica che porta alla caduta del saggio di profitto (21). All’analisi delle crisi derivanti da sproporzione tra i diversi settori della produzione è legato il nome dell’economista russo Michael Tugan-Baranowsky (1865-1919), per il quale è l’anarchia tipica della natura del sistema capitalistico a condurre alle crisi, le quali deriverebbero dalla sproporzione con cui vengono effettuati gli investimenti nel settore dei beni capitali e in quello dei beni di consumo. Ma questo contrasto di interessi può essere composto regolamentando il processo produttivo; ciò significa che, in sostanza, lo sviluppo può avvenire qualunque sia la quota del consumo rispetto all’intera produzione e che la realizzazione del socialismo non dipende dall’ineluttabilità del sistema economico contraddittorio, bensì è il risultato di uno sforzo, è una conquista; il capitalismo, in sostanza, «non morirà mai di morte naturale»: esso può ricevere il colpo mortale solo dal pensiero e dalla volontà umana. Per quanto riguarda, infine, le crisi derivanti da «sottoconsumo», la teoria che ne sostiene il fondamento si basa sull’idea che il consumo è l’obiettivo del processo di produzione, ma che ciò contrasta con il fine del capitalismo di aumentare la produzione. Di questa possibilità hanno dato spiegazioni diverse, tra gli altri, l’inglese John Hobson (1858-1940), l’autriaco Karl Kautsky (1854-1938), l’americano Louis Boudin (‘The Theoretical System of Karl Marx in the Light of Recent Criticism’, 1907), la polacca Rosa Luxemburg (1870-1919) e il sovietico Vladimir Lenin (1870-1924)” [Daniela Parisi, ‘Introduzione storica all’economia politica’, Bologna, 1986] [(16) Gli storici parlano a questo proposito di fluttuazioni di «tipo schumpeteriano» (si veda ‘infra’ cap. VII, par. 3); (17) In questo caso si parla di fluttuazioni di tipo «milliano» (si veda ‘infra’ cap. V, par. 2); (18) C. Juglar, ‘Les crises commerciales et leur retour périodique en France, en Angleterre, et aux Etats-Unis’, Paris, 1862. Sulla sua teoria dei cicli, si veda G. Miconi, ‘C. Juglar, W.C. Mitchell, E. Wagemann’, in AA.VV, ‘I maestri dell’economia moderna’, Milano, Angeli, 1970; P. Guerrieri, ‘Fluttuazioni’, in ‘Economia e Storia’, a cura di M. Carmagnani e A. Vercelli, Firenze, La Nuova Italia, 1978. Dei cicli si tratta in modo più esteso nel cap. VI, par. 4; (19) P. Sweezy, ‘La teoria dello sviluppo’, cit.; (20) R. Hilferding, ‘Das Finanzkapital’, 1910; trad. it. ‘Il capitale finanziario’, Milano, Feltrinelli, 1961; (21) M. Tugan-Baranowsky, ‘Theoetische Grundlagen des Marxismus’, Leipzig, Duncker & Humblot, 1905]
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- Articolo pubblicato:25 Agosto 2017