“A giudizio dei cultori di una filosofia puramente speculativa Marx volle abolire la filosofia per sostituirvi la scienza economica: più esattamente converrebbe dire che egli nega una teoresi che sia scopo a sé; procede cioè da una prassi che esige la propria teoresi, la quale a sua volta è il presupposto di una nuova prassi. Tale interpretazione vi è già nel sistema hegeliano, in cui si svolge però entro l’idea, mentre in Marx si svolge entro quella sola realtà che è la «base», la struttura economica della realtà, la quale è tutta materiale, ma capace di generare da sé lo spirito e sta in un rapporto dialettico inscindibile con esso. Nel quadro d’insieme del pensiero tedesco Marx rappresenta la fase estrema della demitizzazione della metafisica. Kant pose il valore metafisico supremo della coscienza, ultima garante dell’esistenza di Dio; Hegel nell’idea, esistenza ed essenza ad un tempo; Feuerbach nell’uomo individuale, spirito e corpo ad un tempo, spirito soltanto perché anche, ed in prima istanza, corpo, salvo a mitizzare poi quest’uomo fatto di anima e di sensi nella figura di un novello Cristo, dio insieme ed uomo. Marx non solo smaschera tale pericolosa metafisicizzazione feuerbachiana dell’uomo compiuto, ma nello stesso tempo combatte vigorosamente anche la metafisicizzazione della cosa, dell’insieme degli oggetti concreti: egli si sforza d’immaginare, con palese ironia, ciò che direbbero le cose, se sapessero parlare. Aveva sprezzantemente voltato le spalle a ogni possibile metafisica, per studiare le leggi della realtà economica, le leggi della produzione e della distribuzione delle merci; e si accorse che dallo studio della realtà economica era sorta una nuova metafisica, che si stava sempre più rafforzando nella coscienza degli uomini, stava diventando sempre più pericolosa, poiché sempre più affermava la sua natura onnivora; una metafisica della merce eretta a feticcio in sé e per sé esistente, e la metafisica del denaro eretto a feticcio anche più assurdo, che congloba ed annienta in sé ogni merce esistente, anzi ogni merce immaginabile. Nella realtà dell’uomo le cose sono le cose utili, che gli sono indispensabili per vivere; lino e tela, bestiame e grano, che sono prodotti dell’uomo e possono essere barattati o venduti. Le cose sono quindi, in termini economici, «generi d’uso» e ad un tempo merci; e se le merci sapessero parlare, direbbero il loro «valore d’uso». Il loro prezzo può interessare gli uomini, ma non riguarda le merci stesse, in quanto esse sono cose: «Quello che a noi, in quanto cose, compete, è il nostro valore» (1); salvo che l’ipotesi esemplificatrice, deliberatamente assurda, serve soltanto a confermare ciò che Marx ha già detto: il valore che riguarda le merci in quanto oggetti, non riguarda le merci in quanto oggetti «in sé», riguarda invece l’uomo, per il quale gli oggetti sono appunto oggetti d’uso ed anche possibili o effettive merci. Marx scopre così il «carattere di feticcio della merce e del suo arcano», in particolare il carattere di feticcio dell’oro, che più di qualsiasi altra cosa attira l’ingordigia dell’uomo, mentre, preso in sé, non ha alcun valore, perché non è e non può mai essere oggetto d’uso; scopre anche l’errore per cui il valore reale della merce è diventato valore d’uso, cioè prezzo, un prezzo che può essere molto diverso dal valore reale. Ora tale scoperta economica – conviene ben rilevarlo sin d’ora – è una grande scoperta umana, è la scoperta della vera natura e del vero valore dell’uomo, poiché gli oggetti d’uso sono frutti del lavoro dell’uomo ed egli vive solo in quanto produce e scambia oggetti d’uso necessari per la sua esistenza. Il materialismo di Marx è quindi profondamente umanistico, perché rivaluta in pieno l’opera dell’uomo perfezionatore delle condizioni materiali in cui deve vivere. In questo senso è da intendersi il rovesciamento della dialettica hegeliana in senso materialistico. In Hegel permane una frattura fra l’idea ed il mondo, poiché l’attività è sviluppo astratto dell’idea; Marx invece considera l’attività umana, il lavoro, come prodotto dell’uomo concreto e non più isolato. Mentre in Hegel è oscuro il principio in base al quale si possa dire che è la negazione, in Marx la negazione diventa realtà concretissima: è negazione della libertà del lavoro. Non l’idea si aliena da sé; è alienato invece il lavoro, quando il prodotto del lavoro decade a merce in disponibilità di altri e l’uomo decade alla dipendenza delle cose da lui prodotte, ma passate nelle mani dei non produttori (2). Marx in conclusione, è hegeliano in quanto accetta il principio dell’unità della ragione e dell’esistenza e quella realtà che è intesa appunto come unità di ragione ed esistenza, ma trasforma lo storicismo metafisico in materialismo storico. Se con ciò si distrugge la filosofia (3), ciò significa che egli e non Hegel fu quell’«ultimo dei filosofi» che i giovani hegeliani pretendevano di riconoscere nel loro maestro; significa per lo meno che la demistificazione della cosa oggetto d’uso eretta ad arbitrario feticcio metafisico toglie ogni validità a qualsiasi filosofia che tratti delle cose a prescindere dall’uomo e dell’uomo a prescindere delle cose” [Ladislao Mittner, ‘La sinistra hegeliana – Feurbach – Marx ed Engels’ ‘Marx ed Engels. II. La demitizzazione della merce-feticcio’ (in) ‘Storia della letteratura tedesca III*. Dal realismo alla sperimentazione (1820-1970). Dal Biedermeier al fine secolo (1820-1890). Tomo primo’] [(1) ‘Das Kapital, I, libro I, sezione prima, cap. I, 4; (2) Si veda l’acuta e limpida introduzione di G. Pischel, nella sua versione dell”Ideologia tedesca’, Milano, 1947, p. 24 (…); (3) Löwith, p. 109]
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- Articolo pubblicato:29 Gennaio 2017