“Come mostra ampiamente Hannah Arendt (1), basandosi in particolare sui lavori di Jean-Pierre Vernant, il lavoro necessario alla soddisfazione dei bisogni vitali era, nell’Antichità, un’occupazione servile, la quale escludeva dalla cittadinanza, vale a dire dalla partecipazione agli affari pubblici, coloro che lo svolgevano. Il lavoro era indegno del cittadino non perché fosse riservato alle donne e agli schiavi; al contrario, era riservato alle donne e agli schiavi perché «lavorare era asservirsi alla necessità». E questo asservimento  poteva essere accettato solo da colui che, al pari degli schiavi, avesse preferito la vita alla libertà e dunque dato prova del suo spirito servile. Per questo Platone classifica i contadini con gli schiavi, per questo gli artigiani (‘banausoi’), nella misura in cui non lavorano per la città e nella sfera pubblica non sono cittadini per intero: «il loro interesse principale essendo il mestiere e non la piazza pubblica». L’uomo libero rifiuta di sottomettersi alla necessità; egli domina il proprio corpo allo scopo di non essere schiavo dei bisogni e, se lavora, è solo per non dipendere da ciò che non domina, cioè per assicurare o accrescere la propria indipendenza. L’idea che la libertà, vale a dire il regno dell’umano, cominci soltanto «al di là de regno della necessità», e che l’uomo emerga come soggetto capace di condotta morale soltanto nel momento in cui le sue azioni, cessando di esprimere i bisogni imperiosi del corpo e la dipendenza dall’ambiente, derivano dalla sua sola determinazione sovrana, quest’idea è stata una costante da Platone ai giorni nostri. La si ritrova in particolare in Marx, nel famoso passo del Libro III del ‘Capitale’ che, in evidente contraddizione con altri scritti di Marx, colloca il «regno della libertà» oltre la sfera della razionalità economica. Marx vi sottolinea che «lo sviluppo delle forze produttive» determinato dal capitalismo crea «l’embrione di rapporti che rendono possibile (…) una riduzione maggiore del tempo dedicato al lavoro materiale», e aggiunge: «Di fatto il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna: si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. (…) Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà» (2). Non diversamente dalla filosofia greca, Marx, in questo passo, non considera come appartenente alla sfera della libertà il lavoro che consiste nel produrre e riprodurre le basi materiali necessarie alla vita. Tuttavia, esiste una differenza fondamentale tra il lavoro nella società capitalistica e il lavoro nel mondo antico: il primo viene svolto nella sfera pubblica, mentre il secondo resta confinato nella sfera privata. Gran parte dell’economia è, nella città antica, un’attività privata che non si svolge per nulla alla luce del giorno, nello spazio pubblico, ma in seno all’ambito familiare. Quest’ultima sfera, nella sua organizzazione e nella sua gerarchia, era determinata dalle necessità della sussistenza e della riproduzione. «La comunità naturale della casa era quindi il frutto di necessità, e la necessità determinava tutte le attività che vi si compivano» (3). La libertà cominciava soltanto al di fuori della sfera ‘economica’, privata, della famiglia; la sfera della libertà era quella, pubblica, della ‘polis'” [André Gorz, ‘Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica’, Torino, 1992] [(1) Arendt, ‘Vita activa’, cit., cap. 2; (2) K. Marx, ‘Il Capitale’, Torino, 1975, Libro III, cap. 48, pp. 1102 sg; (3) Arendt, ‘Vita activa’, cit., p. 36; (4) Ibid., pp. 36-38]