“Venuto alla luce all’incontro di due secoli («intorno alla mia culla scherzarono gli ultimi raggi lunari del secolo XVIII e i primi raggi mattutini del XIX»), partecipa delle correnti e tendenze opposte della Rivoluzione francese e della Restaurazione, al limite fra le concezioni di un liberalismo maturo e i germi della nascente democrazia proletaria, le tentazioni estetiche classicheggianti e il paternalismo corruttore della Santa Alleanza. Il quadro è complicato dalle angustie dell’educazione familiare nel giudaismo, da cui si libera nel 1825 con la conversione alla religione protestante, e dalle difficoltà pratiche che ne intralciano la carriera di scrittore e l’esistenza. Gli elementi richiamati non daranno vita a una sintesi chiarificatrice, con cui intendere la portata del superamento della dialettica idealistica realizzato nella critica di Marx della filosofia del diritto di Hegel. Erede delle conquiste illuministiche dei Lessing, Voss, Schiller e Goethe, egli resta invischiato nelle aporie e nei vizi di soggettivismo e antropologismo dello spirito tedesco alla fine della sua epoca borghese. L’analisi materialistica della religione, quale è condotta nelle riflessioni della ‘Germania’, è difatti un’idealizzazione della totalità del mondo di tipo spinoziano, una forma rinnovata di religione. In buona fede può allora sostenere: «Io non appartengo a quei materialisti che danno un corpo allo spirito; restituisco, piuttosto, lo spirito ai corpi, li spiritualizzo di nuovo, li santifico. E non appartengo neppure agli atei, che negano; io, al contrario affermo» (5). Di qui il rifiuto del romanticismo moderato e oscurantista con il ritorno al misticismo e al culto del Medioevo; e insieme prende di mira Federico Guglielmo IV, che vagheggia il Sacro Romano Impero e l’assolutismo feudale. Si spiega anche l’indulgenza per Heine di Marx, che ne conosceva con quelli di Goethe i versi a memoria e li citava volentieri, tradottasi nella collaborazione agli «Annali franco-tedeschi» del 1844 con il ‘Lobgesänge auf König Ludwig’, e in reciproche attestazioni di stima, a cui la poesia e la consuetudine familiare contribuiscono in misura notevole (6). (…) Tra nostalgie impossibili e significativi salti all’indietro si conclude la parabola di questo «avanzatissimo franco tiratore della rivoluzione borghese» (Hermann Wendel), che non nasconde una ripugnanza istintiva per la sovranità della «grande massa brutale», e teme che il ‘Libro dei canti’ cada nell’oblio e sia usato dal droghiere «per fare cartocci dove verserà il caffè o il tabacco da fiuto per le vecchie dell’avvenire». Poco interessato alla condizione dello sfruttamento e di schiavitù economica in cui è ormai tenuta quasi tutta l’umanità, condanna la «sciocca vertigine egualitaria» di una società in cui «ciascuno, insofferente della propria mediocrità, cerca di abbassare al livello comune tutte le doti più alte», lamentando che l’imposizione della «veste grigio-cenere dell’uguaglianza» elimini dalla vita «la tradizionale allegria, ogni dolcezza, ogni profumo e poesia», giacché «per la bellezza e il genio non ci sarà posto nella comunità dei nostri nuovi puritani, entrambi saranno scherniti e oppressi, peggio ancora che sotto il precedente regime» (9). Più affine a Saint-Just e Saint-Simon che a Marx, egli non esce fuori dell’orizzonte politico della piccola borghesia radicale, incapace alla fine di intervenire in modo costruttivo nel corso degli eventi del tempo o di risolvere in una scelta equilibrata remore ed apprensioni suscitate dalla vittoria futura del comunismo «avverso a ogni ‘mio’ interesse e inclinazione». Si comprende così la rinuncia alle ragioni della battaglia parigina, l’aspirazione all’annientamento di ‘Lazarus’ e delle ‘Hebräische Melodien'” [Giancarlo Bergami, ‘La parabola politica di Heinrich Heine’, estratto da ‘Il Ponte’, n. 9 30 settembre 1973] [(5) Cfr. l”Avvertenza’ a ‘La scuola romantica’, in ‘La Germania’, cit., pp. 4-5; (6) Sul rapporto fra i due, oltre le considerazioni di L. Basso (cfr. ‘Heine e Marx’, “Belfagor”, XI, n. 2, 31 marzo 1956, pp. 121-136), si veda la valutazione di P. Chiarini, che nell’Introduzione all’op. cit. sottolinea «l’estrema importanza per l’ulteriore sviluppo della produzione heiniana» dell’incontro con Marx, nel 1843-1844, ma «non nel senso univoco che esso la influenzasse decisamente orientandola nei sicuri binari di una posizione ideologica e politica ‘socialista’, ma da un lato per quel tanto che esso contribuì a collocare in una luce più cruda e più netta tutte le interne contraddizioni dell’autore (…), e dall’altro nella misura in cui valse a conferire più piena e tagliente consapevolezza alla sua critica della ‘ideologia tedesca’” (pp. XVI-XVIII); (9) H. Heine, ‘Ludwig Börne’, la citazione è in ‘La Germania’, p. XXXV]