“E’ stato affermato che la collocazione storica di Labriola è quella di “un marxista della Seconda internazionale, che è convinto che per fare la rivoluzione socialista occorrano condizioni di avanzato sviluppo capitalistico e che si pone al di qua dell’analisi dell’imperialismo” (108). Questo giudizio coglie un aspetto fondamentale della meditazione politica di Labriola dopo il suo passaggio al marxismo, ma non è esauriente. Infatti, l’arretratezza strutturale del paese e la mancanza di un proletariato industriale fortemente sviluppato non hanno indotto Labriola – sulla falsariga della linea democraticistica imboccata dal gruppo dirigente della Seconda Internazionale – a ipotizzare per il movimento di classe obbiettivi politici di retroguardia. Questo almeno fino alla fine del secolo. Né, per altro verso, egli si è avvalso esclusivamente dell’analisi economica per spiegare le ragioni dell’inadeguatezza strategica del socialismo italiano (“Le cause generali sempre addotte e sempre ripetute – aveva osservato già nel ’91 – del capitalismo poco sviluppato, dell’industria ancora bambina etc… etc…, appunto perché troppo generali spiegano poco. Ve ne sono delle altre, tutte specificamente italiane che impediscono anche la nascita di quel piccolo partito, che sarebbe ormai possibile anche in Italia”) (109), perché esso é apparso anche guidato da dirigenti largamente sprovveduti sul piano teorico e tutt’altro che inclini a porsi il problema di una strategia politica rivoluzionaria. Soltanto limitatamente alla questione contadina, Labriola verrà convincendosi, come Kautsky, che le condizioni obbiettive per il trapasso dal socialismo potranno dirsi mature quando i coloni saranno integralmente proletarizzati (110). Ma contrariamente agli schemi “ortodossi” della socialdemocrazia tedesca, egli non ha ritenuto che la rivoluzione socialista possa effettuarsi per via parlamentare, conquistando con mezzi pacifici il potere politico. Per Labriola, dietro l’involucro dello stato rappresentativo moderno ci saranno sempre le strutture della società capitalistica, non un libero regime di produttori. D’altra parte la classe operaia italiana, per quanto atipica, ha dimostrato di possedere un “istinto rivoluzionario” così vivo e profondo che le sue rivolte sono divenute immediatamente scontri generali di classe. Le difficoltà oggettive derivanti da una lenta espansione capitalistica non devono quindi indurre un partito operaio a “cristallizzarsi nella goffa idea del legalismo parlamentare”, bensí a richiamarlo al “principio della rivoluzione pratica e progressiva”, per mobilitare le masse su obbiettivi politici sempre più avanzati e generali. Soltanto il “fermento” permanente delle masse potrà rendere possibile la trasformazione socialista della società. Questa la problematica politica di Labriola che le lusinghe del riformismo impediranno a lungo al socialismo italiano di far propria (e anche di non conquistare definitivamente, perché la storia del movimento operaio dimostrerà che sono sempre possibili i “ricorsi”). Gli interessi di Labriola, dal 1895 in poi, verranno intanto prevalentemente rivolti a soddisfare quel programma di lavoro che, come intellettuale marxista, aveva stabilito fin dalla vigilia del congresso di Genova, quando aveva confessato a Engels: “Ormai l’azione pratica in Italia non è possibile. Bisogna scriver libri per istruire quelli che vogliono farla da maestri. Manca all’Italia mezzo secolo di scienza e di esperienza degli altri paesi. Bisogna colmare questa lacuna” (111)” [Franco Sbarberi, Partito e classe operaia nella prima esperienza marxista di Antonio Labriola (1890-1895). (Saggi), ‘Storia contemporanea’, n° 1. 1970] [(108) G. Manacorda, Formazione e primo sviluppo del Partito socialista in Italia, cit., p. 46; (109) F. Turati attraverso le lettere, cit., p. 84; (110) Si vedano le osservazioni sul programma agrario della socialdemocrazia tedesca contenute nel primo saggio su ‘La concezione materialistica della storia e la revisione del marxismo attraverso l’epistolario con Bernstein e con Kautsky, 1895-1904’, a cura di Giuliano Procacci, cit., p. 279 (Annali Feltrinelli, 1960); (111) Lettere a Engels, cit., pp. 65-66]