“Il tempo è misura del lavoro in quanto è la sua ‘quantificazione’, ancora una volta, indifferente alla forma, al contenuto, all’individualità del lavoro. Però questa quantificazione non può esser indifferente a una circostanza: l”esistenza’. Il tempo di lavoro “ne è l’esistenza vivente come esistenza quantitativa”. Ancora una volta dobbiamo rifarci, però, a una considerazione successiva, che è nel ‘Capitale’ (e, in genere, a tutte quelle sue specificazioni che sono documentate nel capitolo sulla ‘Giornata lavorativa’): a un certo punto Marx riporta una statistica dalla quale risultava che ‘la durata media della vita’ d’un operaio era di 30 anni. Equivale a 262.800 ore. Non troppe, per considerare l'”ora di lavoro” come una “misura” astratta, ‘indifferente’ a quanto di più concreto possa esservi per un essere umano: la sua esistenza, temporalmente non più, soltanto, “misurata”, ma ‘limitata’. Quindi, quella “sostanza che fa dei valori d’uso valori di scambio e quindi merci” è, “oggettivata nei valori d’uso delle merci”, ‘tempo di lavoro’, cioè brani d’un’esistenza limitata. Che poi le indagini sul pluvalore sia assoluto (giornata lavorativa prolungata oltre i limiti della resistenza fisica) che relativo (tempo di lavoro non pagato ampliato senza alcun riguardo alle condizioni di lavoro: vedi ‘Macchine e grande industria’) comportino che ciò che è tolto all’operaio non è soltanto un ‘quantum’ di ore di lavoro, ma la totalità del tempo della sua esistenza, questo dimostra, certamente, quella che fin dai ‘Manoscritti’ Marx ha chiamato l”alienazione’ di tutta l’umanità del lavoratore entro il sistema capitalistico; (…)” [Mario Rossi, Cultura e rivoluzione. Funzionalismo storico e umanismo operativo, 1974]